Le cellule del tessuto osseo
Le cellule proprie del tessuto osseo sono morfologicamente distinguibili in 4 varietà:
- le cellule osteoprogenitrici (dette anche preosteoblasti),
- gli osteoblasti,
- gli osteociti
- gli osteoclasti.
Di queste, cellule osteoprogenitrici, osteoblasti e osteociti sono in realtà fasi funzionali consecutive dello stesso tipo cellulare, a sua volta derivato dalla differenziazione in senso osteogenico della cellula mesenchimale pluripotente dei tessuti connettivi; sono pertanto considerabili come cellule autoctone dell’osso.
Gli osteoclasti, per contro, derivano da precursori immigrati nel tessuto osseo dal sangue, i cosiddetti preosteoclasti, i quali a loro volta si differenziano da cellule staminali del midollo osseo ematopoietico.
1 – Le cellule osteoprogenitrici si collocano sulle superfici libere delle ossa: le si riconoscono a livello dello strato più interno del periostio apposto all’osso, il cosiddetto strato osteogenico di Ollier, riccamente vascolarizzato. Tali cellule sono altresì localizzate a livello del tessuto connettivo lasso che riveste le cavita interne dell’osso, il cosiddetto endostio, in vicinanza dei capillari sanguigni. Le cellule osteoprogenitrici sono dotate di capacità proliferativa, che si manifesta in modo particolare durante l’accrescimento corporeo ma che può esplicarsi anche durante la vita adulta. Esse sono in grado di produrre e secernere le bone morphogenetic proteins (BMP), fattori di crescita e di differenziamento autocrini. Quando imboccano la via del differenziamento, le cellule osteoprogenitrici si trasformano in osteoblasti.
2 – Gli osteoblasti sono uniti tra loro e con gli osteociti vicini tramite giunzioni serrate (o gap junctions), tramite le quali le cellule si scambiano molecole segnale per la coordinazione dell’attività metabolica e di deposizione della matrice ossea.
L’osteoblasto è la sede di sintesi delle molecole organiche della sostanza intercellulare dell’osso, le quali vengono successivamente esocitate ed assemblate all’esterno della cellula. L’osteoblasto presiede anche alla mineralizzazione della sostanza intercellulare, secondo modalità che non sono del tutto chiarite. – Nel tessuto osseo che viene deposto per primo, il cosiddetto osso fibroso, si ritiene che giochino un ruolo chiave i globuli calcificanti. Questi verrebbero estrusi dalla cellula per gemmazione, pertanto li si ritroverebbero nella matrice ossea in via di mineralizzazione sotto forma di vescicole della matrice, caratteristicamente provviste di un involucro membranoso. Sembra che l’iniziale deposizione di minerale avvenga proprio a ridosso della membrana interna di queste vescicole, le cui componenti agirebbero da catalizzatori per tale processo. Quando poi la membrana si disgrega, tali molecole si disperderebbero nella sostanza intercellulare dove tuttavia manterrebbero questa loro proprietà. Non è ben compreso se un ulteriore ruolo nel processo di mineralizzazione sia svolto dalle sostanze contenute nelle vescicole della matrice che si liberano quando queste si disgregano. Si ritiene verosimile che i precipitati di minerale fungano da centri di nucleazione dei cristalli di apatite. Meno chiaro sarebbe il ruolo della fosfatasi alcalina: secondo alcuni studiosi essa si attiverebbe producendo ioni fosfato che si combinano con lo ione calcio presente nella sostanza extracellulare a cui si aggiunge quello che contemporaneamente si libera dai mitocondri dell’osteoblasto realizzando le condizioni critiche per l’associazione di calcio e fosfato; tale teoria (ipotesi di Robinson) è stata recentemente messa in discussione, poiché questo enzima è attivo anche in tessuti che non mineralizzano (dove è coinvolta nella sintesi della componente organica della matrice intercellulare) e poiché la presenza di concentrazioni sufficienti di substrati organici fosforilati nei centri di mineralizzazione non è mai stata effettivamente dimostrata.
Altrettanto oscuro è il possibile ruolo svolto dalla pirofosfatasi: secondo alcuni ricercatori anch’essa potrebbe attivarsi liberando gruppi pirofosfato da particolari molecole, denominate difosfonati, ed inattivandole. I difosfonati, quando sono integri, si combinano con le estremità dei cristalli di apatite e impediscono l’ulteriore concrezione di ioni calcio e fosfato, agendo quindi da inibitori della mineralizzazione.
Quando vengano scissi dalla pirofosfatasi osteoblastica, i difosfonati perdono affinità per i cristalli di apatite consentendo così la crescita dei cristalli stessi. Nel tessuto osseo che viene deposto successivamente all’osso fibroso e che lo rimpiazza, il cosiddetto osso lamellare, le vescicole della matrice sono invece virtualmente assenti. Si ritiene che, in questa sede, il processo di mineralizzazione sia avviato da componenti delle fibre collagene e/o da molecole della sostanza fondamentale anista associati alle fibre collagene. Sembra inoltre importante la presenza dei cristalli di idrossiapatite già presenti dallo stadio di osso fibroso, che in qualche modo ancora non chiaro potrebbero fungere da catalizzatori per la deposizione di nuovi cristalli.
In entrambi i casi, alla regolazione della mineralizzazione della matrice ossea contribuirebbero inoltre altre molecole prodotte dagli osteoblasti, tra le quali vanno ricordate l’osteonectina, che favorisce la nucleazione dei cristalli minerali, e la osteocalcina, che agirebbe invece da inibitore della precipitazione di fosfato di calcio. Una fisiologica deposizione di sostanza minerale è il risultato di un fine equilibrio che si raggiunge nell’azione di tutti i vari fattori capaci di influire su di essa.
La produzione della matrice ossea e la sua mineralizzazione avvengono secondo un orientamento ben preciso: inizialmente l’osteoblasto depone osso dal lato rivolto verso la superficie ossea preesistente; successivamente ne depone da ogni lato tutto attorno a sé, di modo che ciascuna cellula si allontana progressivamente dalle circostanti a causa dell’interposizione di sostanza intercellulare. A questo punto l’osteoblasto rallenta sostanzialmente la sua attività metabolica e si trasforma in un osteocita, mentre nuovi osteoblasti si differenziano via via dalle cellule osteoprogenitrici. Quando il processo di formazione di nuovo tessuto osseo si è esaurito, gli osteoblasti che rimangono a ridosso della superficie ossea cessano la loro attività, riducono i loro organuli e si trasformano in una membrana di cellule appiattite, le cosiddette cellule di rivestimento dell’osso (bone lining cells), a cui si attribuisce un ruolo nel mediare gli scambi tra vasi sanguigni e osteociti.
Gli osteoblasti producono e secernono fattori solubili, il più studiato dei quali è il fattore di crescita trasformante (trasforming growth factor)-ß (TGF-ß) che è un potente stimolatore degli osteoblasti stessi. Esso fa parte della stessa famiglia a cui appartengono le BMP; agendo in maniera paracrina ed autocrina, è capace di modulare la proliferazione delle cellule osteoprogenitrici, di promuovere il loro differenziamento in osteoblasti e di incrementare il metabolismo e le sintesi macromolecolari degli osteoblasti maturi. Il TGF-ß viene secreto in forma di precursore inattivo, il quale viene convertito nella forma attiva ad opera di proteasi presenti nell’ambiente extracellulare. Oltre al TGF-ß, gli osteoblasti producono gli insulin-like growth factors (IGF), molecole proteiche strettamente apparentate tra loro con una spiccata azione di stimolo sulla crescita e sul metabolismo osteoblastico.
Gli osteoblasti sono coinvolti nei processi di rimaneggiamento dell’osso. Infatti, queste cellule sono in grado di innescare il riassorbimento della matrice ossea sia indirettamente, in quanto producono fattori solubili che attivano gli osteoclasti, le cellule preposte al riassorbimento osseo, sia direttamente, in quanto secernono enzimi proteolitici capaci di scindere i componenti della matrice organica dell’osso. Tra questi enzimi vi è la collagenasi, che viene secreta sotto forma di procollagenasi inattiva. La sua attivazione avviene nell’ambiente extracellulare ad opera di un’altra proteasi, l’attivatore tissutale del plasminogeno (tPA), anch’esso prodotto dagli stessi osteoblasti. Il tPA attiva una proteasi ad ampio spettro, la plasmina, presente nel plasma sanguigno come precursore inattivo, detto plasminogeno. La plasmina opera il clivaggio proteolitico della procollagenasi trasformandola nella collagenasi attiva. La collagenasi osteoblastica agirebbe rimuovendo lo strato di tessuto osteoide non mineralizzato che riveste la superficie dell’osso, consentendo così agli osteoclasti di aderire alla matrice mineralizzata e dissolverla.
3 – gli osteociti sono le cellule tipiche dell’osso maturo, responsabili del suo mantenimento ed anche capaci di avviarne il rimaneggiamento. Sono cellule terminali, con una autonomia di vita finita, finemente regolata da meccanismi endocrini. Il corpo dell’osteocita rimane racchiuso in una nicchia scavata nella sostanza intercellulare ossea, detta lacuna ossea, la cui forma ricalca quella della cellula, mentre i prolungamenti sono accolti all’interno di sottili canali scavati nel tessuto osseo e definiti canalicoli ossei. Alle loro estremità, i prolungamenti di un osteocita sono connessi mediante giunzioni serrate con quelli degli osteociti circostanti. Tra la membrana plasmatica del corpo cellulare e dei prolungamenti e la matrice mineralizzata rimane uno spazio sottile occupato da tessuto osteoide che non mineralizza. Attraverso il tessuto osteoide delle lacune e dei canalicoli ossei, che sono ampiamente comunicanti, l’acqua e le sostanze disciolte (gas respiratori e metaboliti) riescono a raggiungere tutti gli osteociti, anche quelli più distanti dai vasi sanguigni. Metaboliti e molecole segnale disciolti nel citoplasma possono inoltre essere scambiate tra gli osteociti per il tramite delle giunzioni serrate.
Quando l’osteocita giunge at termine del suo ciclo vitale, esso ritrae i propri prolungamenti e degenera. Per molto tempo si è ritenuto che la morte degli osteociti fosse alla base del cosiddetto minirimaneggiamento, che avviene a livello di singoli osteociti e che nel suo insieme era ritenuto essere coinvolto nel mantenimento dei livelli circolanti di ione calcio (calcemia). Dagli osteociti morti si sarebbero infatti liberati nella lacuna acidi organici derivati dal metabolismo cellulare (es. acido lattico) ed enzimi lisosomiali: i primi avrebbero disciolto i cristalli di apatite ed i secondi avrebbero scisso le macromolecole organiche della sostanza intercellulare, operando la cosiddetta osteolisi osteocitica. Si riteneva altresì che l’osteolisi osteocitica fosse promossa dal paratormone (PTH), l’ormone ipercalcemizzante prodotto dalle paratiroidi, il quale interagendo con recettori posti sulla membrana degli osteociti avrebbe determinato un abbreviazione del loro ciclo vitale. In epoca recente, tuttavia, il ruolo dell’osteolisi osteocitica è stato ridimensionato: la mobilizzazione di ioni calcio dalla matrice ossea stimolata dal paratormone è ritenuta dipendere principalmente dall’azione combinata di osteoblasti ed osteoclasti. Vi sono dati a favore dell’ipotesi che, nelle zone di riassorbimento della matrice ossea da parte degli osteoclasti, gli osteociti non muoiano affatto ma vadano ad arricchire il patrimonio di cellule di rivestimento dell’osso, anche se non è charo se esse siano ancora capaci di trasformarsi nuovamente in osteoblasti attivi.
4 – Gli osteoclasti sono le cellule preposte al riassorbimento osseo. Come già accennato, essi non sono cellule autoctone del tessuto osseo, in quanto non appartengono alla linea che deriva dalle cellule osteoprogenitrici. I precursori degli osteoclasti, detti preosteoclasti, originano nel midollo osseo ematopoietico e sono apparentati con la linea differenziativa di una categoria di globuli bianchi, i monociti. I preosteoclasti vengono trasportati dal torrente circolatorio fino alle sedi in cui debbono avvenire processi di riassorbimento osseo; qui giunti, essi migrano nel tessuto osseo e si fondono insieme originando gli osteoclasti attivi, elementi sinciziali capaci di dissolvere la componente minerale e di digerire enzimaticamente le componenti organiche del tessuto osseo. Il citoplasma è acidofilo. L’osteoclasto attivato è aderente alla matrice mineralizzata in via di riassorbimento ed è solitamente accolto in una cavità, detta lacuna di Howship, che si forma a seguito dell’azione erosiva della cellula sull’osso. Sul versante della cellula che si appone all’osso è visibile il cosiddetto orletto increspato, che appare come un’ispessimento della superficie cellulare con una sottile striatura disposta perpendicolarmente alla superficie stessa. Con metodi istochimici, a livello dell’orletto increspato si può rivelare la presenza dell’enzima anidrasi carbonica e di pompe a protoni. Il riassorbimento della matrice ossea inizia con la dissoluzione della componente minerale dovuta all’acidificazione del microambiente della zona sigillata. A questo livello l’anidrasi carbonica, sita sul versante ialoplasmatico del plasmalemma dell’orletto increspato, genera acido carbonico a partire da CO2 e H2O; le pompe di membrana localizzate sul plasmalemma dell’orletto increspato trasportano attivamente protoni, derivati dalla dissociazione dell’acido carbonico e di altri acidi organici di origine metabolica (es. acido citrico, acido lattico), nell’ambiente extracellulare. L’abbassamento del pH che ne consegue porta alla dissoluzione dei cristalli di apatite. Nel contempo l’osteoclasto esocita il contenuto degli enzimi lisosomiali all’esterno: a basso pH le idrolasi lisosomiali si attivano e digeriscono i componenti organici della matrice ossea. Inoltre, l’osteoclasto libera l’attivatore tissutale del plasminogeno, il quale a sua volta attiva la plasmina e, per suo tramite, la collagenasi latente prodotta dagli osteoblasti. Quest’ultimo enzima contribuisce con la sua azione litica alla digestione della sostanza intercellulare organica dell’osso. Osservando al microscopio elettronico un osteoclasto in attività è possibile documentare, negli interstizi tra i microvilli dell’orletto striato, cristalli di apatite e microfibrille collagene distaccatisi dalla matrice ossea e in via di disgregazione.
L’azione erosiva dell’osteoclasto si manifesta con la formazione della lacuna di Howship. Una volta formata una prima lacuna, l’osteoclasto si distacca dalla matrice ossea, si muove per moto ameboide su una porzione di osso adiacente a quella appena riassorbita, aderisce nuovamente e forma una nuova lacuna. Procedendo un pò come una ruspa che compie uno sterro, l’osteoclasto procede lungo l’osso scavandovi solchi profondi. Nel loro insieme, più osteoclasti attivati riescono in un tempo relativamente breve a riassorbire porzioni anche cospicue di osso.
La funzione osteoclastica è finemente regolata da fattori ormonali e locali. In particolare, gli osteoclasti sono le uniche cellule dell’osso che possiedono i recettori per l’ormone calcitonina, prodotto dalle cellule parafollicolari (o cellule C) della tiroide, con azione antagonista al paratormone. La calcitonina è un inibitore del riassorbimento dell’osso, essendo capace di indurre il distacco degli osteoclasti dall’osso, la scomparsa dell’orletto increspato e la riduzione del metabolismo cellulare. Il recettore per la calcitonina è già espresso dai precursori circolanti degli osteoclasti, e la sua evidenziazione può essere un valido metodo per la identificazione di queste cellule. Per contro, gli osteoclasti non esprimono il recettore per il paratormone, che non ha alcun effetto diretto su di essi. L’azione osteolitica del paratormone sembra esplicarsi per il tramite degli osteoblasti: questi, sotto stimolo dell’ormone, libererebbero fattori solubili detti OAF (osteoclast activating factors), che agirebbero sugli osteoclasti attivandoli e promuovendo così il riassorbimento osseo. La natura chimica degli OAF non è nota: probabilmente alcuni di questi fanno parte della categoria delle BMP (as es. la BMP-2 è un potente stimolatore del differenziamento osteoclastico in vitro). Questa ipotesi sembra avvalorata dai risultati di esperimenti condotti in vitro, che hanno dimostrato come fattori di stimolo del riassorbimento osseo, come il paratormone, la vitamina D ed alcune citochine, siano incapaci di stimolare gli osteoclasti a riassorbire l’osso, a meno che questi non siano mantenuti in coltura insieme con osteoblasti.
Prof. Daniele Bani Ordinario di Istologia Università di Firenze Dip. Anatomia, Istologia e Medicina Legale.