I difosfonati sono una classe di farmaci conosciuta e d utilizzati in terapia da oltre 20 anni.
Attualmente il loro utilizzo è in forte espansione per le sempre maggiori indicazioni terapeutiche che posseggono, infatti, vengono impiegati con successo come farmaci antiosteolitici, in tutte quelle malattie con un aumentato riassorbimento osseo; molto usati nei pazienti con neoplasie maligne e con metastasi ossee, nei mielomi, in chirurgia ortopedica per stabilizzare i mezzi di osteosintesi, nell’osteoporosi di varia natura, durante le terapie croniche con corticosteroidi, nel malattia di Paget, negli iperparatiroidismi primari e secondari ecc.
Hanno azione diretta sull’osso inibendo l’azione di riassorbimento degli osteoclasti, per cui l’osso si appone solamente; si possono somministrare per via orale o per via endovenosa con somministrazioni mensili.
Le problematiche in odontoiatria sono note dal 2005 per qualsiasi manovra chirurgica, dal l’estrazione dei denti, ai trattamenti parodontali, alla terapia Implantare.Ma, nonostante si stia con ciò diffondendo la consapevolezza di tale relazione, è in aumento in Italia il consumo di tali medicinali perché vengono sempre più largamente prescritti per la prevenzione dell’osteoporosi alle donne che entrano in menopausa.
”Come se questa patologia fosse drammaticamente aumentata nel nostro Paese e con tali prescrizioni si evitassero chissà quante fratture” dice Silvio Garattini, direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche “Mario Negri” di Milano.
Da uno studio condotto all’Università di Tampere (Finlandia) e pubblicato il 17 gennaio 2008 sul British Medical Journal emerge che otto fratture su 10 avvengono in persone che non hanno osteoporosi e che la causa di nove fratture su 10 è una caduta per cui non si può prevenire con farmaci.
”Un uso così indiscriminato di tali farmaci – prosegue Garattini – sembra inutile, se non dannoso, perché non sono privi di effetti tossici. Nel caso di assunzione per via orale gli effetti collaterali possono essere ulcere esofagee e gastriti, dermatiti, febbre, diminuzione dei globuli bianchi, congiuntiviti, aritmie cardiache, ipocalcemia. Quello più temibile, anche se apparentemente raro, è l’osteonecrosi mandibolare, attribuibile allo stimolo molto forte esercitato da questi farmaci sul tessuto osseo che nella mandibola è in continuo rimodellamento per la presenza dei denti. La situazione necrotica può anche rimanere non conclamata finché non sia complicata da alterazioni gengivali o dentali e scarsa igiene, che facilitano la penetrazione di batteri nella matrice ossea dando luogo a processi settici e fistole. Non sappiamo quali conseguenze possa avere a lungo termine la modifica del tessuto osseo che questi farmaci provocano: il timore è che possa condurre alla necrosi di altre ossa”. L’allarme è stato lanciato fin dal 2005 dalla Food and Drug Administration statunitense (Oncologic Drugs Advisory Committee background sheet). E i produttori dei farmaci hanno segnalato nel 2004, con lettere informative ai medici e con un’avvertenza inserita nella scheda tecnica del medicinale, il rischio di questo effetto collaterale che spesso si manifesta dopo un trattamento odontoiatrico. Ma ancora oggi esiste soprattutto nei medici di base la non conoscenza e in alcuni casi la negazione di tali complicanze .
I bifosfonati, detti anche difosfonati, utilizzati in passato nella produzione di detersivi e dentifrici, oltre che in agricoltura, dal 1990 si usano come farmaci per il trattamento di metastasi ossee e dell’osteoporosi. Vengono prescritti anche, in dosi minori, per il trattamento dell’osteoporosi a donne in menopausa o in condizione patologiche associate a depauperamento del tessuto osseo (alcune malattie renali o paratiroidee). Studi clinici hanno dimostrato la loro efficacia in persone ad alto rischio per tali patologie. Secondo i ricercatori australiani dell’Università di Newcastle è stato trasformato in malattia quello che è soltanto un fattore di rischio, al solo scopo di vendere test e medicinali a persone relativamente sane. Il guaio è che, come tutti i medicinali, anche questi possano avere effetti collaterali. Per qualche tempo sono stati ritenuti a rischio di osteonecrosi mandibolare i soli pazienti oncologici.
Ma, anche se la dimensione del pericolo varia in base al bifosfonato assunto, ai fattori di rischio del paziente (impiego concomitante di farmaci, malattie, e altro) e alla situazione del cavo orale, sembra prudente considerare a rischio di osteonecrosi della mandibola tutti i pazienti che assumono bifosfonati, secondo l’American Association of Endodontists. ”Così com’è prudente – afferma Garattini -, quando non si hanno dati sufficienti per definire il rapporto rischio/beneficio, limitare l’uso del farmaco ai casi di indiscussa necessità, sospendere la somministrazione in vista di un trattamento dentale e ricorrere per gli altri casi alle alternative disponibili. Per la prevenzione dell’osteoporosi diversi studi hanno provato l’efficacia di Calcio associato a vitamina D. Ma non si usano perché costano pochissimo”.
L’osteonecrosi avascolare appare più precocemente nei pazienti che assumono farmaci bifosfonati per via endovenosa che per coloro che li assumono per via orale; ma naturalmente l’insorgenza della complicanza è influenzata anche da altri fattori, come interventi odontoiatrici che spesso (ma non sempre) sono il vero evento scatenante la patologia. Le estrazioni dentarie sono, senza dubbio, gli interventi che più spesso causano la complicanza ma anche altri interventi cruenti possono essere chiamati in causa come fattori scatenanti (chirurgia parodontale, chirurgia implantare, apicectomia). Nel 25% dei casi non si riscontra nessun intervento odontoiatrico che possa spiegare l’avvenuta complicanza. Questi casi vengono definiti in letteratura come “spontanei”. È stato calcolato che il rischio (odds ratio) di osteonecrosi avascolare dei mascellari nel paziente che assume farmaci bifosfonati e si sottopone a chirurgia orale sia 4,24 volte maggiore di quello del paziente che assume lo stesso tipo di farmaco e non necessita di terapia chirurgica.
Il CTX
Il CTX (Telopeptide C-Terminale del collagene di tipo I) è un marker sierico del turnover osseo. Il CTX-Telopeptide è il frammento carbossi-terminale della molecola di collagene, proteina della matrice ossea. Il suo dosaggio, su campione di sangue o urine, serve a monitorare il processo di formazione e riassorbimento dell’osso. Valori elevati del CTX indicano che si sta consumando la matrice ossea e in questo caso l’osso non avrà la struttura adatta per la deposizione del calcio che quindi sarà meno resistente e più soggetto a fratture.
Valori normali del CTX Telopeptide:
- CTX minore di 100 pg/ml (alto rischio)
- CTX compreso tra 100-150 pg/ml (rischio moderato)
- CTX superiore a 150 pg/ml (rischio minimo o nullo)
Esistono invece diversi protocolli basati sulla somministrazione pre- e postchirurgica di antibiotici ad ampio spettro e sull’utilizzo congiunto di antisettici orali.
In fase operatoria, naturalmente, l’odontoiatra dovrà assicurarsi di condurre la chirurgia più atraumatica possibile e di scollare adeguatamente lembi idonei a chiusura primaria.
Rifacendosi sempre alle linee guida attualmente disponibili, un modus operandi valido è perciò quello basato sulla prevenzione e sull’adozione di un approccio di tipo intercettivo.
Idealmente, il paziente candidato a terapia a base di bifosfonati dovrebbe essere sottoposto a una valutazione odontoiatrica preventiva, al fine di verificare lo stato dell’igiene e della salute stomatognatica.
Nel momento in cui sia stabilita la necessità di interventi chirurgici orali, si sceglierà di posticipare l’inizio della terapia farmacologica ad un momento posteriore alla guarigione (il riferimento temporale è di circa 1 mese).
Le linee guida ministeriali paiono meno favorevoli per quanto riguarda la chirurgia implantare. È giusto però ricordare che nel 2005 Marx propose un protocollo chirurgico, basato sulla valutazione in laboratorio del livello di telopeptide C (CTX): secondo questi dati, il rischio di intervenire sarebbe alto solo nel caso di CTX < 100 pg/mL. però, dato che sono diverse le variabili che influenzano lo stesso CTX, ad oggi non è possibile basarsi solo su tale parametro per pianificare o meno la terapia.
FASE OPERATIVA
Secondo protocollo Università degli Studi di Palermo
1. Lettura, approvazione e firma del consenso informato del rischio a breve o lungo termine di ONJ.
2. Procedere in campo operatorio sterile
3. Anestesia locale senza vasocostrittore
4. Lembo muco periosteo con incisioni di scarico
5. Estrazione del dente e toelette alveolare con manipolazione ossea minima (rimozione di detriti e tessuto di granulazione, alveoloplastica), mediante piezosurgery o pinza ossivora. (Se necessaria più di una estrazione, procedere una volta per volta, soprattutto nel caso in cui il farmaco non venga sospeso).
6. Irrigazioni intralveolari con antibatterico (e.g. Rifamicina sodica oppure Ceftazidima penta idrato 1gr/3ml, uso locale per irrigazione)
7. Adattamento della mucosa o del lembo e sutura per favorire guarigione per prima intenzione (cercando di evitare eccessive trazioni ai tessuti molli)
8. Biostimolazione laser, se disponibile o ritenuta opportuna
9. Prescrivere terapia antisettica locale (clorexidina gel) e ricostituiva (i.e. acido ialuronico + aminoacidi essenziali) 3 volte/die a distanza di 15 min l’una dall’altra, per 15 gg (fino a guarigione clinica dell’alveolo).