Gli impianti short.
Per poter attuare un piano di trattamento implanto-protesico è indispensabile classificare il grado di riassorbimento osseo dei mascellari. Nel corso degli anni, numerose sono state le classificazioni quantitative del riassorbimento osseo, proposte dai vari Autori, che hanno permesso di tracciare e rendere confrontabili protocolli diversi. Tra queste quella maggiormente conosciuta e seguita è la classificazione elaborata da Cawood e Howell nel 1988, i quali hanno documentato come il riassorbimento osseo derivante dalla perdita di funzione legata all’assenza dei denti segua modalità costanti e ripetibili, pur nella diversità tra individuo e individuo. Gli autori, utilizzando un’analisi anatomica di tipo tridimensionale, hanno riscontrato che il processo di riassorbimento è quasi totalmente confinato al processo alveolare, mentre la parte basale non subisce cambiamenti significativi dopo l’estrazione.
Questa classificazione distingue sei classi di atrofia ossea, che di fatto sono gli stadi che progressivamente si realizzano dopo la perdita degli elementi dentari: -I classe: la cresta alveolare presenta elementi dentali -II classe: la cresta alveolare presenta alveoli post-estrattivi -II classe: la cresta alveolare è ampia e arrotondata, con adeguata altezza e spessore -IV classe: la cresta alveolare è a lama di coltello, con altezza sufficiente ma spessore insufficiente -V classe: la cresta alveolare è appiattita, con altezza e spessore insufficienti -VI classe ( solo mandibolare): la cresta presenta la scomparsa del processo alveolare con riassorbimento a coppa. Alcuni autori hanno recentemente proposto l’introduzione di una VII classe che classifica le atrofie estreme, caratterizzate dal riassorbimento anche dell’osso basale. Cawood e Howell sono arrivati per primi alla conclusione che il riassorbimento osseo fosse diverso anche in funzione della sede in cui si manifestava. Nella mandibola il riassorbimento osseo, nella regione intra-foramina, è quasi del tutto vestibolare e ha un andamento orizzontale, mentre, posteriormente ai forami mentonieri, è prevalentemente verticale. Nel tempo la mandibola edentula va in contro a un riassorbimento di tipo centrifugo, che riduce l’osso residuo al solo osso basale posizionato più esternamente rispetto alla cresta alveolare. Nel mascellare, invece, il riassorbimento osseo è fin dall’inizio prevalentemente orizzontale sul versante vestibolare di tutta l’arcata. Nel tempo il mascellare va incontro ad un riassorbimento centripeto, che riduce l’osso residuo al solo osso basale posto internamente all’arco della cresta alveolare. Nel complesso, il paziente edentulo su entrambe le arcate viene a trovarsi in una condizione di terza classe scheletrica, con l’osso residuo mandibolare posizionato vestibolarmente rispetto al mascellare superiore. Tale osservazione clinica è di fondamentale importanza nel trattamento delle edentulie totali dei mascellari.
Se le classificazioni morfologiche sono determinanti nella formulazione del piano di trattamento, di fondamentale importanza è anche la conoscenza della classificazione della qualità dell’osso per densità e struttura, perché entrambi questi fattori influiscono sulla scelta del tipo di impianto, sull’approccio chirurgico e sui tempi e le modalità del carico protesico.
La densità ossea, infatti, non influenza solo la stabilità implantare nella prima fase chirurgica, ma è determinante nella resistenza ai carichi masticatori dopo la protesizzazione. Nel 1985 Lekholm Zarb suddivisero in quattro classi la qualità del tessuto osseo in base al rapporto tra osso corticale e osso spongioso nella sede presa in considerazione. -I classe (D1): osso compatto formato quasi esclusivamente da osso corticale -II classe (D2): osso con spessa corticale compatta e densa trabecolatura interna -III classe (D3): osso con corticale meno spessa e spongiosa meno densa -IV classe (D4): osso con sottile corticale e trabecolatura rarefatta. L’osso di tipo D1, che non si osserva praticamente mai nel mascellare superiore mentre si riscontra nella mandibola a livello della sinfisi mentoniera, è poco favorevole, a causa della ridotta vascolarizzazione, sia alla fissazione di un innesto che al posizionamento implantare. La qualità D2 è quella ideale, perché l’osso corticale è sufficientemente spesso per assicurare la stabilità primaria e l’abbondante vascolarizzazione della spongiosa è in grado di garantire un’adeguata riparazione ossea. Questa qualità, frequentemente reperibile nella zona intra-foraminale, si presenta spesso anche nella parte posteriore della mandibola e può essere osservata anche nel mascellare superiore, per lo più nelle edentulie parziali. L’osso D3, che presenta una vascolarizzazione della spongiosa inferiore a quella dell’osso D2, è di più frequente riscontro nel mascellare in presenza di selle edentule estese e presenti da molto tempo, ma si osserva spesso anche nella parte posteriore della mandibola. L’osso D4, riscontrabile quasi esclusivamente nella parte posteriore del mascellare, presenta una corticale molto sottile, che non permette un’adeguata stabilità primaria degli impianti, e una spongiosa poco densa e scarsamente vascolarizzata. Benché sia evidente l’importanza che assume nella formulazione del piano di trattamento la diagnosi della quantità e della qualità ossea nel sito dell’intervento, decisiva è la valutazione da parte dell’operatore della densità ossea, che si percepisce meccanicamente in sede intra-operatoria, per la conferma o la correzione del piano di trattamento iniziale..
Numerosi studi presenti in letteratura dimostrano una sopravvivenza a medio-lungo termine per gli impianti di lunghezza ridotta assolutamente sovrapponibile a quella degli impianti di lunghezza “standard” (Corbella et al. 2013, Monie et al. 2013, Srinivasan et al. 2013, Atieh et al. 2012, Annibali et al. 2012). Tuttavia, poiché in letteratura vengono definiti “short” gli impianti di lunghezza compresa tra 5 e 8 mm, questi dati debbono essere interpretati con cautela in considerazione della non omogeneità del campione preso in esame.
Cionondimeno la prognosi di assoluta affidabilità (>93% a medio-lungo termine) degli impianti di lunghezza pari a 8 mm ha portato la comunità scientifica a considerare tali impianti non più “short” ma “standard”, per cui possono essere definiti “short” solo gli impianti di lunghezza pari o inferiori a 6 mm. La possibilità di ridurre sempre più la lunghezza delle “fixture” ha consentito di incrementare la quantità dei siti edentuli trattabili con la chirurgia tradizionale nell’ottica di una semplificazione del trattamento implantare, che comporti una riduzione della morbilità per il paziente, un contenimento dei costi e non richieda una particolare abilità da parte dell’opreattore.
Poiché le più recenti revisioni sistematiche della letteratura attribuiscono una maggior quota di fallimenti per gli “short implants” con superficie macchinata e posizionati nel mascellare superiore, è ormai sistematico l’impiego di impianti con superfici sottoposte a micro e macro trattamenti onde ovviare a tale evidenza clinica (Sun et al. 2011, Neldam et al. 2010, Romeo et al. 2004 and 2006). Un altro aspetto dibattuto sull’opportunità di selezionare impianti corti, soprattutto nei settori diatorici, è quello del rispetto di un corretto rapporto tra corona protesica e impianto. Studi di biomeccanica e analisi ad elementi finiti hanno evidenziato come uno sfavorevole rapporto tra la lunghezza dell’impianto e l’altezza del restauro protesico possa portare a sollecitazioni meccaniche a livello della porzione coronale della “fixture”, con conseguente riassorbimento osseo peri-implantare (Bayraktar et al. 2011), che comprometterebbe ulteriormente il rapporto corona protesica- impianto. Queste supposizioni sono smentite dalla clinica e dai dati riportati dalle più recenti revisioni sull’argomento, poiché non è stata dimostrata sia per impianti di lunghezza standard sia per quelli di lunghezza ridotta, alcuna associazione tra fallimento implantare e sfavorevole rapporto corona protesica – impianto (Anitua et al. 2013, Sotto-Maior et al. 2012, Birdi et al. 2010, Blanes 2009). Un altro fattore, valido anche per impianti di lunghezza standard, che viene preso in considerazione come causa di fallimento per gli “short implants” è il sovraccarico occlusale delle corone protesiche. Riguardo infine alla necessità di splintare tra loro o con “fixture” standard gli impianti corti, ancora una volta le conclusioni degli studi di biomeccanica e le analisi ad elementi finiti non trovano conforto nell’evidenza riportata da studi clinici prospettici e revisioni sistematiche (Monie et al. 2013, Srinivasan et al. 2013, Atieh et al. 2012, Yilmaz et al. 2011), nei quali non viene riscontrata alcuna differenza statisticamente significativa in termini di sopravvivenza tra “short implant” singoli e splintati tra di loro o con altri impianti standard. Il fattore fondamentale da tenere in considerazione è la realizzazione di un’occlusione bilanciata, che non favorisca sovraccarichi meccanici a livello del complesso fixture-abutment. In conclusione, l’impiego di impianti di lunghezza ridotta è da considerarsi come sicuro e predicibile a medio-lungo termine. Nel prossimo futuro sarà possibile disporre in letteratura di una adeguata quantità di dati clinici sulla performance di impianti sempre più corti (≤ a 6 mm). Tale trend trova giustificazione nella necessità sopra citata di limitare sempre più il ricorso a terapie di rigenerazione ossea, le quali aumentano l’invasività del trattamento, i costi e i tempi necessari alla riabilitazione del sito edentulo, nell’ottica della semplificazione del piano di trattamento.
SIO – Società Italiana di Implantologia Osteointegrata
Autori: Eugenio Romeo, Stefano Storelli, Diego Lops