moncone di guarigione

La guarigione ossea Implantare.
I processi di guarigione ossea iniziano immediatamente dopo il trauma provocato dalla creazione di un alveolo chirurgico e dall’applicazione di un impianto, che causa l’interruzione dei vasi sanguigni ossei con conseguente sanguinamento.
il sanguinamento dell’ alveolo determina il contatto tra i liquidi biologici dell’ospite e la superficie dell’impianto appena inserito,  che si protrarrà per 2-4 giorni dal trauma.
Più nello specifico, l’adsorbimento sulla superficie implantare di ioni e macromolecole di origine ematica è immediato e fondamentale anche per la stessa adesione piastrinica: infatti, proteine ematiche come il fibrinogeno permettono l’adesione delle piastrine sulla superficie dell’impianto.
Le piastrine vanno incontro a degranulazione, con rilascio di fattori di crescita quali il platelet derived growth factor (PDGF) e il transforming growth factor beta (TGF- beta), che possiedono attività chemotattica e mitogena nei confronti delle cellule mesenchimali indifferenziate dotate di potenziale osteogenico. Inoltre, le piastrine rilasciano specifici fattori (fattore VIII o di von Willebrand), essenziali nella promozione della diapedesi o migrazione di leucociti ovvero globuli bianchi nello spazio perimplantare. Il richiamo di cellule con potenziale osteogenico e di globuli bianchi nel sito chirurgico, d’altra parte, è garantito dalla stessa interruzione della circolazione sanguigna, contemporanea agli eventi emorragici, che determina degenerazione ischemica del tessuto peri-implantare, riduzione della tensione di ossigeno nel sito chirurgico e stimolo chemotattico anche per le cellule endoteliali. Come abbiamo visto, insieme all’attivazione e all’aggregazione piastrinica, si innesca la cascata coagulativa, che esita nella formazione del coagulo di fibrina. Il risultato è la formazione di un network stabile, cioè una vera e propria rete che rappresenta di
fatto un’autostrada per le cellule che devono raggiungere la superficie implantare, appunto leucociti e cellule osteogeniche.
Le proteine ematiche adsorbite sulla superficie implantare sono moltissime e con svariate funzioni, non limitate all’adesione piastrinica. A livello ultrastrutturale, pertanto, avvengono in questa fase due fenomeni importanti: da un lato, la superficie dell’impianto, ricoperta strutturalmente dallo strato di biossido di titanio, assorbe su di sé una grande quantità di proteine, formando così un biofilm proteico; dall’altro, essa è in grado di legare chimicamente a sé una grande quantità di ioni, tra cui gli ioni calcio e fosfato. In presenza di un’adeguata concentrazione di ioni calcio e fosfato, infatti, si viene a creare uno strato amorfo o nanocristallino di calciofosfati, dello spessore incostante, ma minimo (in genere di 5 nm) che compenetra il biofilm proteico e si organizza al di sotto di esso. Gli anioni e i cationi sono incorporati nello strato di biossido e la formazione di questo strato minerale è rilevante perché, sebbene i meccanismi nei quali è coinvolto siano ancora poco conosciuti, certamente esso è in grado di modellare l’interfaccia tra il titanio e le proteine su di esso adsorbite. Il biofilm proteico, invece, è rappresentato da uno strato inizialmente sottile di proteine, carboidrati, proteoglicani, lipoproteine e glicosaminoglicani, che in breve tempo si organizza in uno strato proteico amorfo di dimensioni variabili (20- 500 nm), ricco soprattutto in glicoproteine, proteoglicani e osteopontina (OPN), ma privo di collagene. Non esiste consenso univoco relativamente alle dimensioni di questo strato proteico non collagenico, poiché esso è stato rilevato in diverse forme: alcuni autori lo descrivono come strato acellulare amorfo di dimensioni comprese tra 500 e 600 nm, altri come sottile strato di non più di 50 nm. Questa disomogeneità di spessore potrebbe essere interpretata in relazione non solo allo sviluppo temporale, ma anche alla distribuzione spaziale. Tuttavia, questo strato elettrondenso interfacciale è chiaramente distinto dall’osso mineralizzato e dalla matrice osteoide stessa e prende anche il nome di linea cementante (cement layer). Le cellule si legano alla superficie implantare proprio attraverso questo strato proteico. Il seguente meccanismo è simile a ciò che avviene in natura, laddove la fibronectina, proteina della matrice extracellulare, si comporta anch’essa come ponte per l’adesione cellulare, sempre attraverso il legame specifico con le integrine, proteine presenti sulla superficie degli osteoblasti e delle cellule mesenchimali indifferenziate, con potenziale osteogenetico. Il legame che coinvolge le integrine e determina l’adesione cellulare alla superficie implantare come alla matrice ossea extracellulare, è descritto come adesione focale.
A questo punto (4 – 7 giorno), i macrofagi cominciano la digestione ed eliminazione dell’ematoma e dei tessuti necrotici, con formazione di un blastema fibrocellulare, dotato di un grande potenziale osteogenetico fino alla quarta-sesta settimana. La ferita chirurgica è ormai popolata di cellule mesenchimali dotate di potenziale osteogenetico, provenienti anche dai vasi neoformati: la neoangiogenesi è infatti sempre prerequisito per l’osteogenesi (dalla quarta-sesta settimana in poi).
Si avrà, pertanto, intorno all’impianto, un’osteogenesi con formazione di tessuto osseo primario giovane che verrà poi rimodellato e sostituito quasi del tutto da tessuto osseo secondario lamellare, allorchè i carichi prima indiretti e poi diretti saranno recepiti dal tessuto osseo stesso.
Nel processo di osteointegrazione, due fattori svolgono un ruolo importante: la stabilità primaria (stabilità meccanica) e la stabilità secondaria (stabilità biologica dopo il rimodellamento dell’osso) dell’impianto nell’osso
È fondamentale introdurre inoltre il concetto di stabilità primaria e secondaria: non appena si inserisce un impianto nell’osso mascellare, alcune aree della superficie entrano a contatto diretto con l’osso. Questo contatto determina stabilità primaria o meccanica e dipende dalla forma dell’impianto, dalla qualità dell’osso e dalla preparazione del letto implantare. La stabilità primaria diminuisce gradualmente nel processo di rimodellamento dell’osso.
La stabilità secondaria, invece, è chiamata in causa successivamente, nel processo di guarigione; quando l’osso è rimodellato e forma nuove aree di contatto con la superficie implantare. Questo nuovo contatto con l’osso è chiamato stabilità secondaria o biologica. Quando il processo di guarigione è terminato, la stabilità meccanica iniziale è completamente sostituita dalla stabilità biologica.
La velocità del processo di osteointegrazione e la sua quantità sono funzione del tipo di superficie dell’impianto, che può presentare una geometria tale da attrarre cellule osteoblaste.
Studi recenti hanno dimostrato che se l’impianto viene dotato di una superficie di tipo spugnoso, il processo è notevolmente più rapido e intimo. Per contro, una superficie spugnosa o con rugosità molto accentuata è molto più esposta a colonizzazioni batteriche che posso facilmente portare alla perdita dell’impianto stesso.
Gli studi di Osborn e Newesley hanno mostrato che la neoformazione ossea avviene attraverso due fenomeni, l’osteogenesi a distanza e quella da contatto. Nel primo caso la deposizione da parte degli osteoblasti e la successiva mineralizzazione avviene in una direzione che va dalla periferia verso l’impianto, ossia l’osso va a circondare gradualmente la vite. Nel secondo processo si verifica un’osteointegrazione in direzione opposta, dall’impianto alla periferia. L’apposizione di nuovo osso esige un
continuo richiamo di cellule dall’osso e dal circolo sanguigno verso l’impianto, dato che gli osteoblasti, dopo il differenziamento, sono solo in grado di produrre osso per apposizione. Una volta che essi si sono polarizzati, producono proteine ECM, specialmente collagene, con lo scopo di dare una struttura precisa all’interfaccia osso- impianto, che, dopo la calcificazione, si tramuta in matrice osteoide e infine in tessuto osseo.
Perché l’osteointegrazione avvenga nel modo più corretto e soddisfacente possibile, si sono sviluppati diversi trattamenti superficiali, che consentono di irruvidire la topografia: si preferiscono superfici rugose alle lisce perché assorbono di più le biomolecole coinvolte nei processi sopra descritti, favoriscono di più la differenziazione degli osteoblasti, aumentano la sintesi di ECM e incrementano l’aggregazione delle piastrine.
Bisogna precisare l’osteointegrazione è legata anche ai concetti di osteoinduzione e osteoconduzione. Con la prima definizione si indica la stimolazione delle cellule osteoprogenitrici alla differenziazione osteoblastica, fenomeno che dà avvio all’osteogenesi, quindi la “induce”. L’osteoconduzione riguarda invece la crescita dell’osso su di una superficie, implica dunque l’esistenza di superfici più o meno osteoconduttive, ossia in grado di favorire meglio o peggio l’adesione e l’adattamento delle cellule al sito implantare. Si vede come l’ancoraggio diretto (l’osteointegrazione) tra impianto e nuovo osso, se si mantiene con successo e senza interposizione di tessuto fibroso (al contrario, l’osteofibrointegrazione comporta reazioni infiammatorie, riassorbimento osseo e fallimento dell’impianto), non sia altro che il risultato concreto di una precedente osteoinduzione e osteoconduzione.
In conclusione, la resistenza ambientale del titanio dipende soprattutto da un film d’ossido superficiale (principalmente TiO) molto sottile, tenace e altamente protettivo, molto stabile al di sopra di un certo range di ph, di potenziale e di temperatura, la cui formazione è particolarmente favorita quando il carattere ossidante dell’ambiente aumenta; per questo motivo, il titanio resiste generalmente agli ambienti leggermente riducenti, neutri e altamente ossidanti fino a temperature ragionevolmente alte. Il titanio sviluppa ossidi superficiali molto stabili con alta integrità, tenacia e buona aderenza. L’ossido superficiale sul titanio, se graffiato o danneggiato, è in grado immediatamente di ricostruirsi in presenza di aria o di acqua.
Il processo di osteointegrazione, consistente nella migrazione e proliferazione delle cellule osteoblastiche e nelle successive sintesi, deposizione e mineralizzazione della matrice ossea, è enormemente influenzato dalla rugosità e dalla composizione chimica delle superfici, due parametri profondamente correlati fra loro nella determinazione dell’aspetto strutturale e della natura di una superficie implantare. Essi hanno un ruolo chiave nell’ottimizzazione della risposta biologica dei tessuti perimplantari: conferendo una certa configurazione topografica all’impianto (ne modificano la morfologia, quindi anche l’energia di superficie e la bagnabilità),
vanno a condizionare quantitativamente e qualitativamente la neoformazione ossea. Questo si traduce nella capacità di guidare la proliferazione e il differenziamento cellulari, oltre alla produzione ed il rilascio locale di fattori stimolanti la guarigione del sito attorno alla fixture.
E’ importante che si rispetti un determinato grado di rugosità soprattutto nelle fasi iniziali di integrazione di un impianto, durante le quali un buon contatto osso- impianto è fondamentale perché gli osteoblasti aderiscano efficientemente, proliferino, si differenzino e diano avvio alla sintesi dei componenti della matrice, e perché si verifichi un incremento di produzione della fosfatasi alcalina (agisce nella fase di mineralizzazione), di osteocalcina e di TGF-β e PGE2 (prostaglandina E2, una sostanza ormono-simile che aumenta l’aggregazione piastrinica nei processi infiammatori).
L’attacco e l’adesione degli osteoblasti, fasi iniziali del processo osteointegrativo, sono proprio determinati dalla morfologia più che da altre caratteristiche superficiali. Nella fase di attacco sono essenziali i microvilli, strutture cellulari che interagiscono con il titanio tramite il legame ionico e le forze di Van der Waals. Nella fase di adesione si ha il coinvolgimento della matrice extracellulare, del citoscheletro e dei recettori di membrana. L’attivazione di determinati segnali controlla la conformazione delle cellule e le guida a differenziarsi: questo può avvenire grazie alle adesioni focali, complessi proteici che legano il citoscheletro alla matrice extracellulare; una componente di essi in particolare, la vinculina, ha un ruolo primario. Un’altra proteina, l’OPG (osteoprotegerina, glicoproteina inibitrice del riassorbimento osseo), diminuisce l’azione osteoclastica ed agisce quindi sul rimodellamento locale dell’osso che circonda l’impianto.
In uno studio in vitro di Passeri et al. (2009) si è valutata la risposta di cellule osteoblasti che primarie a diverse superfici, con lo scopo di sottolineare in che modo morfologie differenti modulino in maniera altrettanto differente il comportamento degli osteoblasti, con particolare attenzione ai due processi preliminari prima descritti di attacco e adesione.
Si può notare come le superfici sabbiate e trattate con attacco acido e le superfici rivestite con plasma-spray rivelino già all’inizio un buon contatto fra le cellule ed una proliferazione elevata di esse sul substrato. Queste superfici, se confrontate con quelle levigate (polished) o lisce (machined), mostrano adesioni focali diverse, in virtù del fatto che i loro osteoblasti hanno subito uno stress meccanico più intenso (le adesioni sono infatti viste come dei meccano-sensori e la loro lunghezza è proporzionale allo sforzo applicato dalle fibre di actina; sono rilevabili sulle direzioni lungo le quali le cellule si adattano alla conformazione delle irregolarità superficiali). La conseguenza di una migliore adesione si traduce in contatti più forti e stabili tra le cellule: anche se inizialmente le superfici meno ruvide mostrano una maggiore proliferazione e le più irregolari ne rivelano una più lenta, a lungo termine la situazione volge a favore delle seconde, in quanto nelle prime il tasso proliferativo degli osteoblasti si abbassa.
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