Perimplantiti
La perimplantite rappresenta la causa della perdita degli impianti a lungo termine.
È una problematica che si presenta costantemente in tutti i pazienti che non rispettano le visite di controllo, e che se evidenziate in fase molto precoce sono quasi sempre curabili e risolvibili come si evince dalle pagine sottostanti estratte dal rapporto Istasan 07/7.
Perimplantite retrograda
L’impianto può fallire per via di un sovraccarico, di un trauma o di fattori occlusali (parafunzioni). Si può avere sovraccarico, quando l’osso in cui si trova è di scarsa qualità o di quantità inadeguata, quando l’impianto si trova in una posizione tale per cui il carico è direzionato fuori asse con una conseguente squilibrata distribuzione delle forze occlusali sulla superficie implantare, quando il numero totale degli impianti è insufficiente rispetto alla superficie masticatoria offerta dalla sovrastruttura protesica, quando la sovrastruttura stessa non combacia perfettamente con gli impianti stessi. Questo tipo di problematiche portano ad un quadro clinico caratterizzato da riassorbimento osseo periapicale senza che compaia infiammazione dei tessuti molli perimplantari. Da qui il nome di perimplantite retrograda che si differenzia nettamente dalla perimplantite infettiva perché è associata ad una flora batterica intrasulculare più coerente con uno stato di salute gengivale (prevalentemente Streptococchi). Anche intorno al dente naturale carichi eccessivi possono causare una riduzione dell’osso mineralizzato, ma, in assenza di infiammazione parodontale di origine infettiva, si ha una regressione del fenomeno al venire meno del sovraccarico.
Perimplantite infettiva
La perimplantite infettiva, invece, si può definire come una manifestazione della parodontite a livello degli impianti. Queste, infatti, sono due malattie legate dalle stesse caratteristiche cliniche e dallo stesso fattore eziologico: la placca batterica. Si manifestano, infatti, con gli stessi quadri clinici: prima con l’infiammazione marcata della gengiva che circonda l’elemento (gengivite e mucosite perimplantare), e poi con la formazione di tasche profonde e con perdita progressiva di osso.
La perimplantite infettiva e la parodontite hanno gli stessi fattori di rischio: scarsa igiene orale, fumo, malattie sistemiche (diabete non compensato, ipercolesterolemia), gravidanza, familiarità. Evidenziata la loro stretta correlazione, bisogna sottolineare anche delle differenze tra l’evoluzione clinica delle due patologie dettate dalle differenti caratteristiche anatomiche delle strutture parodontali e quelle perimplantari.
Sull’impianto, infatti, non vi è cemento e quindi non ci sono nemmeno le inserzioni delle fibre collagene, le quali decorrono parallelamente e non perpendicolarmente all’impianto, per cui la sola barriera che previene la disseminazione batterica nel solco perimplantare è costituita dalle fibre circolari. Inoltre, secondo un altro studio, non si sviluppa nessun sigillo biologico (adesione delle cellule epiteliali tramite membrana basale ed emidesmosomi) fra i tessuti molli e la superficie implantare metallica per cui l’adattamento dei tessuti molli alle superfici implantari sarebbe più legato al tono e alla vicinanza della gengiva, che non alla presenza di attacco di epitelio giunzionale.
Tutto ciò ci fa capire come gli impianti abbiano una barriera tissutale naturale meno efficace rispetto ai denti naturali e sono quindi meno resistenti alle infezioni.
I batteri trovano un percorso preferenziale che li conduce direttamente a contatto con la superficie implantare a ridosso della quale producono endotossine in grado di iniziare una risposta infiammatoria acuta che tende a progredire più apicalmente che nel parodonto naturale coinvolgendo più rapidamente nel processo distruttivo l’osso alveolare perimplantare. Questa minore resistenza del connettivo sopralveolare perimplantare all’incedere incalzante della distruzione tissutale è attribuibile anche al ridotto rapporto quantitativo fibroblasti/collagene che lo contraddistingue e alla scarsa irrorazione di questo tessuto, che non può contare, a differenza dell’equivalente tessuto parodontale, sull’apporto sanguigno del plesso vascolare del legamento parodontale. Per questo un impianto è più esposto al rischio di infezione dei suoi tessuti di supporto di quanto non lo sia un dente e perciò un paziente implantare deve essere trattato e monitorato come fosse un paziente parodontale.
Se poi si ha intenzione di riabilitare impianto-protesicamente un paziente parodontale, è d’obbligo trattarlo fino a remissione della malattia parodontale, prima di cominciare con la terapia implantare.
Dopo la riabilitazione impianto-protesica tutti i pazienti andranno inquadrati in un programma di mantenimento efficace, adeguatamente disegnato per le individuali necessità del paziente: la Terapia Parodontale di Supporto (TPS). Il paziente andrà richiamato ad intervalli regolari per una seduta di mantenimento organizzata in quattro fasi: VRD (Visita, Rivalutazione, Diagnosi), MRS (Motivazione, Reistruzione, Strumentazione), TSR (Trattamento dei Siti Reinfettati), LD (Lucidatura, Determinazione intervallo di richiamo).
Nella fase diagnostica verranno valutati, a livello degli impianti, i seguenti parametri:
- 1. indice di placca (Plaque Index, PlI);
- 2. sanguinamento al sondaggio (Bleeding On Probing, BOP);
- 3. presenza di suppurazione (SUPP);
- 4. profondità per il rilevamento della perimplantite (Periimplant Probing Depth, PPD) o mobilità;
- 5. evidenza radiografica di perdita ossea (RX).
La mobilità, come parametro diagnostico, assume carattere di alta specificità, ma di scarsa sensibilità in quanto comincia a manifestarsi solo in seguito alla completa perdita di osseointegrazione da parte dell’impianto.
Il BOP è definito come la presenza di sanguinamento notato dopo la penetrazione di una sonda parodontale con una pressione gentile (0,25 N) nel solco o nella tasca perimplantare. L’assenza di BOP assicura nel 100% dei casi la stabilità del dente, mentre il 30% dei denti con BOP positivo sono soggetti a perdita di supporto parodontale. Sembra ragionevole adottare queste conclusioni anche sugli impianti pur se studi specifici in merito non sono mai stati compiuti.
La perdita di attacco va valutata sull’impianto misurando la distanza tra la punta della sonda e la spalla dell’impianto. Ad oggi non esiste nessuna evidenza scientifica che la procedura di sondaggio danneggi l’integrità dei tessuti molli intorno all’impianto, purchè non sia effettuata con pressioni superiori a 0,25 N, che facilmente consentirebbero alla sonda di attraversare l’attacco epiteliale e le fibre connettivali circolari e di fermarsi solo davanti alla resistenza opposta dalla cresta alveolare. Va inoltre tenuto presente che secondo alcuni ricercatori il tessuto molle perimplantare sano o scarsamente infiammato offre alla sonda una resistenza maggiore di quello infiammato, infatti, anche una cauta manovra di sondaggio in una tasca perimplantare attiva evidenzierebbe un valore di PPD mediamente 1,2 mm più alto di quello reale.
Per questi motivi il sondaggio intorno agli impianti è considerata una tecnica diagnostica molto sensibile per la perimplantite.
La radiografia convenzionale è molto utilizzata nella diagnosi di perimplantite per mezzo del parametro DIB (Distance Implant Bone Crest), ma bisogna tener presente che possono essere rilevati cambiamenti nella morfologia ossea a livello crestale solo se questi raggiungono dimensioni e forme significative. Questa tecnica, quindi, rilevando frequentemente falsi negativi, ma molto raramente falsi positivi, ha una bassa sensibilità ed un’alta specificità per la determinazione di perdite ossee perimplantari.
Molto più alta risulta la sensibilità della radiografie digitali secondo la tecnica della DSR (Digital Subtraction Radiography), che individua, grazie alla sottrazione da una immagine di baseline delle immagini successive, anche minimi cambiamenti del livello o della densità dell’osso alveolare.
Sulla base della valutazione di questi parametri diagnostici fondamentali, Mombelli consiglia di procedere all’adozione del protocollo terapeutico CIST (Cumulative Interceptive Supportive Therapy) da lui elaborato nel 1999 presso la Scuola Odontoiatrica dell’Università di Berna del Prof. Lang, per prevenire e/o bloccare lo svilupparsi di lesioni perimplantari.
E’ un protocollo cumulativo perché composto da cinque protocolli specifici associati in sequenza con un crescente potenziale antibatterico proporzionale alla severità e all’estensione della lesione:
- 1. Protocollo A (detossificazione meccanica)
- 2. Protocollo B (terapia antisettico)
- 3. Protocollo C (terapia antibiotico)
- 4. Protocollo D (terapia chirurgica)
- 5. Protocollo E (espianto)
Impianti dentali privi di placca e di tartaro, con BOP negativo, senza segni di suppurazione, con un PPD non superiore a 3 mm sono considerati clinicamente stabili e non a rischio di perimplantite perciò il paziente verrà richiamato a controllo dopo un anno.
Impianti dentali con placca visibile o tartaro a ridosso dei tessuti perimplantari lievemente infiammati con BOP positivo, senza segni di suppurazione e con un PPD non superiore a 3 mm sono soggetti al protocollo A di detossificazione meccanica. Questa procedura prevede l’utilizzo di uno strumentario apposito costituito da curette in fibra di carbonio o in teflon per rimuovere il tartaro e di coppette o gommini con pasta lucidante scarsamente abrasiva per polishing per rimuovere la placca. Le curette di metallo, infatti, danneggerebbero le superfici dell’impianto rendendolo maggiormente esposto all’accumulo futuro di placca batterica.
Quando ai segni di infiammazione rilevati nel caso precedente si aggiunge anche un PPD di 4-5 mm con o senza suppurazione in atto, al protocollo A si aggiunge quello B di trattamento antisettico che si avvale dell’utilizzo di un potente antisettico, la clorexidina digluconato da somministrare sotto forma di sciacqui giornalieri allo 0,12% o di gel da applicare direttamente sul sito infiammato per la durata di 3-4 settimane.
Quando invece il PPD è maggiore di 5 mm e il difetto inizia ad essere apprezzabile radiograficamente, i protocolli A e B vengono seguiti dal protocollo C di trattamento antibiotico necessario ad eliminare o almeno ridurre significativamente i patogeni Gram- che hanno colonizzato la tasca. Le terapie sistemiche più utilizzate sono quelle a base di metronidazolo (3 x 350 mg al giorno) o ornidazolo (2 x 500 mg al giorno) o ancora l’associazione tra metronidazolo (500 mg al giorno) e amoxicillina (375 mg al giorno) durante gli ultimi 10 giorni di terapia antimicrobica.
Quando il problema perimplantare è localizzato e non è affiancato da una diffusa problematica parodontale con presenza di altri siti infetti, si può prendere in considerazione l’utilizzo di antibiotici locali, purchè rimangano in situ in concentrazioni tali da penetrare nel biofilm sottomucoso per almeno 7-10 giorni. Un esempio di questo tipo di antibiotici che ha dato buoni risultati in alcuni studi sono le fibre di tetraciclina.
Effettuate queste prime tre fasi del protocollo CIST, si può procedere al protocollo D (quello chirurgico) solo se si è avuta, con i precedenti protocolli, una remissione dell’infiammazione e dell’infezione e quindi assenza di segni di suppurazione.
In base a considerazioni estetiche e alle caratteristiche morfologiche del difetto si può scegliere se effettuare una chirurgia rigenerativa o resettiva. In entrambi i casi è opportuno effettuare anche in sede intraoperatoria una decontaminazione delle superfici implantari sopra- alveolari. La terapia chirurgica si rende necessaria soprattutto a livello dei siti perimplantari profondi, a livello dei quali, in alcuni studi, è stato riscontrato un ritorno dei parametri microbiologici (quantità di batteri parodontopatogeni) ai valori pretrattamento solo dopo un mese dalla fine della terapia non chirurgica (A + B + C). Per via di una sfavorevole morfologia
del tessuto perimplantare dopo terapia non chirurgica, spesso le superfici implantari esposte al rischio di contaminazione batterica, non possono essere tenute pulite da placca dal paziente con manovre di igiene orale convenzionali. Perciò può essere necessario ricorrere ad un intervento chirurgico addizionale per modificare la morfologia dei tessuti in modo da prevenire la reinfezione della tasca dopo terapia antibiotica.
Solo dopo che il processo infiammatorio è sotto controllo, si può tentare di ristabilire l’osteointegrazione con procedure chirurgico-rigenerative. Esistono alcuni casi documentati di rigenerazione ossea perimplantare raggiunta, dopo terapia anti-infettiva, per mezzo dei principi biologici della GTR (Guided Tissue Regeneration), anche se non si hanno ancora evidenze istologiche della re-osteointegrazione, la rigenerazione ossea perimplantare è stata documentata da un incremento di densità ossea radiografica.
L’espianto (protocollo E) è inevitabile qualora l’impianto raggiunga la mobilità, perchè la lesione perimplantare ha interessato l’intera lunghezza e circonferenza dell’impianto. Spesso questa situazione è caratterizzata da BOP positivo, suppurazione, PPD maggiore di 8 mm, dolore e, alla radiografia, da una radiotrasparenza che circonda l’intero profilo dell’impianto.